Recensione Manga – Nabi – The Prototype di Kim Yeon-Joo

A cura di Mokona (testi) e Takiko-chan (grafica)

Titolo: Nabi The Prototype
Autrice: KIM Yeon-Joo
Categoria: Sunjeong Manhwa

:: Il manhwa in Corea ::
Casa editrice: Daiwon
Numero di volumetti: 1 (concluso)
Prima pubblicazione: 2005
Rivista di serializzazione: Issue

:: Il manhwa in Italia ::  
Editore: J-Pop
Numero di volumi: 1 (concluso)
Pubblicato nel mese di: Aprile 2006
Distribuzione: fumetteria
Prezzo: 7 euro.
Formato: 15×21 cm, 192 pag + sovraccoperta
Nota: sul mensile coreano “Issue” edito da Daiwon è stata serializzata la serie regolare di Nabi, conclusa poi in 24 volumi.

Storia
Innanzitutto, prima di riassumere la trama di quest’opera, è necessaria una premessa. Nabi è una raccolta di storie brevi di ambientazione fantastica, e per quanto dalla terza in poi vi sia una sorta di “unità narrativa” a formare un legame, le prime due, nella loro estrema brevità, sono assolutamente indipendenti. Detto questo, entriamo nel vivo della storia.

Il primo racconto, intitolato “Il frassino”, si apre con lo sguardo spento di una elegante bambina dai lunghi capelli chiari, seduta con abbandonata compostezza sui gradini di una ampia scalinata. Il suo nome, come scopriremo poco dopo, è Soryu. Di sangue nobile, privata del dono della vista, viene presa in ostaggio dai nemici di suo padre, a causa di una indefinita “questione di vita o di morte”. Eppure, trasportata dagli eventi, circondata da sconosciuti, non versa una lacrima, né si concede un grido di terrore, rinchiudendosi in un gelido silenzio. È spaventata, certo, “Ma… sapevo già tutto…” pensa tra sé “…per cui non dovevo far altro che aspettare”. I suoi rapitori sono persone gentili, che si trovano a disagio col gesto che sono stati costretti a compiere. La trattano con dolcezza, prendendosi cura di lei. Tra di loro, un alto ragazzo dai modi gentili, di cui non conosceremo mai il nome, comincia a trascorrere molto tempo al suo fianco, passeggiando insieme a lei lungo i giardini della sua dimora.
Giorno dopo giorno apre a Soryu il suo cuore, rivelandole i suoi desideri, i suoi pensieri più intimi, i suoi sensi di colpa, con un tono calmo e pacato, come se stesse parlando al silenzio. E il silenzio di Soryu finalmente si incrina, lasciando scivolare poche parole, eteree, sottili. Finché un giorno non giunge la notizia di un accordo raggiunto, di una prossima liberazione. Una notizia che la bambina non riesce ad accogliere con un sorriso, e dalla freddezza scivola lentamente verso l’inquietudine, poi verso il terrore, e infine verso le lacrime. Finché non si ritrova sola, nella sera, sentendo solo il vuoto intorno a sé, adagiata all’ombra di un frassino, costretta ad attendere l’inevitabile svolgersi degli eventi, senza poter fare nulla per opporsi ad esso…

Dalle sue pagine finali, cariche di toni scuri e malinconici, le ultime vignette più chiare e luminose ci conducono alle prime parole del secondo racconto, “Pyol”. Una luminosità destinata a durare poco. Pyol è il nome di uno dei protagonisti, ma è anche un termine coreano di origine cinese che può assumere due significati: “stella”, oppure “addio”. La storia narra di Kyom, nipote del capo della sua tribù, che per forgiare un’alleanza con il potente regno di Su viene inviata come concubina al suo dispotico sovrano. Più di un’alleanza, infatti, si tratta di un ricatto: se la ragazza non gli sarà consegnata entro circa un mese, quasi come un ostaggio, la tribù verrà sterminata. Kyom prima di partire ha un unico desiderio, essere scortata fino al regno di Su da Pyol, un ragazzo a cui sembra legata da un silenzioso affetto. Pyol e Kyom hanno caratteri quasi opposti. Lei energica, logorroica, irritabile. Lui introverso, silenzioso, rassegnato. “Una ragazza rumorosa e un ragazzo noioso”, come vengono dipinti sin dalle prime pagine. E costretti a compiere il viaggio a piedi, persi in una immensa pianura, soli dopo essere scampati a un assalto di briganti, continuano ad avanzare verso la loro meta, con soli quindici giorni a disposizione. Passo dopo passo, si ritrovano ad affrontare il desiderio di scappare lontano, a sentire sulle loro spalle la responsabilità della salvezza dell’intera tribù, a confrontarsi con i loro sentimenti faticosamente repressi. Un groviglio confuso di pensieri e sensazioni da cui fuggire, con la triste consapevolezza del destino che è stato ormai posto inevitabilmente di fronte a loro.

Giunti al termine del loro cammino, veniamo accolti da un altro sguardo, simile a quello che ha aperto il volume, ma molto più ingenuo, calmo, luminoso. È l’inizio del terzo racconto, “Il pomeriggio di una bambina”. Qui facciamo finalmente la conoscenza dei due personaggi che l’autrice ha scelto come protagonisti, a partire dalla loro infanzia. Myoun, il cui nome significa “bella nuvola”, è una bambina semplice, pacata, dai modi gentili. Privata dei genitori in seguito a una calamità naturale, al suo risveglio dal disastro si ritrova nel letto di un orfanotrofio, incapace sia di ricordare l’accaduto che di esprimere i propri pensieri. Disorientata e ferita a una gamba, inizia a trascorrere le sue giornate in solitudine, osservando seduta tutto ciò che la circonda, con uno sguardo confuso, ma velato di un’innocente curiosità. Ryusang è un orfano come lei, un ragazzino irruento dagli occhi del colore del cielo. Violento e irascibile, viene costretto da una delle maestre a occuparsi di Myoun, ad assisterla fino al giorno della sua guarigione. Un compito che accetta controvoglia, limitandosi a farle compagnia durante i pasti, o ad accompagnarla verso il sonno con le parole di una fiaba. Giorno dopo giorno, cerca di mantenere un certo distacco da lei, pretendendo di non aver bisogno di alcun amico. E amici non ne ha, tutti i suoi coetanei non fanno che ridere del colore dei suoi occhi, scatenando litigi che prontamente degenerano nella violenza. Finché un pomeriggio, umiliato e sconfitto nell’ennesima rissa, Ryusang decide di nascondersi in un canneto e non fare più ritorno all’orfanotrofio. Myoun è l’unica a conoscere il suo rifugio, e così, calata la sera, decide di portargli di nascosto la cena, e di restare insieme a lui per fargli un po’ di compagnia. E da quel momento, tra i due, inizierà a formarsi un silenzioso legame…

Un legame che avrebbe potuto promettere, come in molte altre opere, la nascita di un affetto profondo. Ma questo non era nei piani dell’autrice, a quanto pare. E infatti il quarto racconto, “La neve e i fiori”, subito infrange la dolcezza del precedente finale. Vediamo la piccola Myoun in lacrime, inginocchiata a terra, con una mano che invano cerca di trattenere il sangue che le sgorga dalla fronte. E Ryusang che la fissa con freddezza, in piedi di fronte a lei, quasi compiacendosi della perfezione del suo gesto, del vaso di fiori che le ha fatto scivolare in testa, in preda alla rabbia. E nel sangue rimaniamo, quando la storia subito si sposta avanti di molti anni, facendoci ritrovare i due protagonisti ormai adulti, sempre nello stesso luogo. Ryusang giace in un letto dell’orfanotrofio, ancora in vita, ma pugnalato gravemente. A vegliare su di lui c’è Aru, una bambina sensibile e spensierata di cui conosceremo ben presto la storia. E insieme a lei, Myoun, a cui Ryusang dopo quel gesto violento ha deciso di chiudere completamente il proprio cuore, tanto da non rivolgerle più la parola. Un gesto che a distanza di anni pesa ancora su di lui, e le cui conseguenze, i significati e i legami che ha portato con sé si ritroverà ad affrontare durante la sua convalescenza. E il ricordo dei fiori di camelia, dei fiori rossi su un foglio candido come la neve che la maestra dipinse quel triste giorno d’infanzia, e che Ryusang, come unica punizione, fu costretto a osservare, riaffioreranno dolorosamente nella sua memoria, mentre il ragazzo continuerà a domandarsi perché la sua tutrice abbia voluto legarlo così saldamente a Myoun, tanto da spingerlo a rischiare la sua vita per lei, per una ragazza dai sentimenti tanto incomprensibili.

Con il quinto racconto, “Mi chiamo Aru”, la bambina stessa ci racconta la sua storia, la storia del viaggio che l’ha portata a conoscere i due protagonisti. Un viaggio iniziato una sera piovosa, quando aspettando suo padre, un po’ preoccupata e un poco annoiata, decise di andargli incontro con un ombrello, per offrirgli riparo. E in mezzo a una folla curiosa lo trovò, finalmente, e insieme a lui trovò Myoun e Ryusang, inviati dalla loro tutrice per incontrarlo. Ma ciò di cui Aru non si rese conto immediatamente, purtroppo, era che l’uomo giaceva morto ai loro piedi. Gravemente malato, nei suoi ultimi giorni di vita aveva scritto una lettera alla maestra dell’orfanotrofio, chiedendole di occuparsi di Aru, che già aveva perso la madre anni prima. E la maestra non aveva esitato ad accettare, scegliendo Myoun e Ryusang per guidarla e proteggerla nel lungo viaggio verso la sua nuova casa. Lungo il cammino, con il paese tanto amato ormai alle spalle, saranno i ricordi ad accompagnare Aru. Non una lacrima, solo le poesie di suo padre, e i momenti felici trascorsi con lui. E insieme a essi, gli istanti spensierati trascorsi a fianco di Myoun e Ryusang. E i suoi sorrisi coraggiosi, la sua allegria malinconica. E i suoi pensieri, che al calar della notte salgono verso un cielo stellato, rivolti alla luce lontana di cui ora risplendono i suoi genitori.

“La sfera di cristallo” è il titolo dell’ultimo racconto, che subito si lega ai precedenti, aprendosi con una scena a cui già abbiamo assistito. Le lacrime della piccola Myoun, con il viso rigato di sangue, e lo sguardo di Ryusang, freddo e compiaciuto sopra di lei. Ma questa scena, stavolta, è accompagnata dai pensieri della sua “vittima”. Il punto di vista viene rovesciato, e questa volta tocca alla ragazza affrontare i sentimenti, i ricordi e i significati di quel giorno tanto triste. I due ragazzi si trovano nuovamente costretti a viaggiare insieme, per scortare un ospite di riguardo della maestra fino al regno di Su, paese che già abbiamo conosciuto nel secondo racconto. Hana è il suo nome, una ragazza allegra ed euforica che subito si affeziona a Myoun, mentre di Ryusang riesce solamente a guadagnarsi il sospetto. Ma questa è solo l’apparenza. Il suo nome è falso, così come la sua identità. E nemmeno i due ragazzi sanno molto di lei. O meglio, di lui. Perchè Hana è in verità un ragazzo, travestitosi per nascondere meglio la sua identità. E nel corso del viaggio, sarà proprio grazie alle sue parole, alla sua “invadenza”, e al senso di mistero che lo accompagna che i sentimenti di Myoun, nelle loro sfaccettature più complesse e sottili, riaffioreranno in superficie con intensità. Sentimenti che, senza tradire l’atmosfera respirata racconto dopo racconto, accompagneranno lo svolgersi della storia fino al dipanarsi degli eventi, per poi chiudere il volume con la leggerezza e la poesia di un cielo azzurro.

Considerazioni
Nabi è un manga di atmosfera. Mi sentirei di definirlo così. Infatti, guardandolo con occhio più tecnico, ci si rende conto facilmente che infrange molte delle regole più basilari della narrazione. I racconti non hanno una vera e propria trama, o meglio, la trama c’è, ma viene usata più come ambientazione, come sfondo. Il susseguirsi degli eventi ha un’importanza secondaria, e spesso ciò che accade non viene mostrato, ma solo raccontato attraverso gli occhi e le parole dei protagonisti. Non vi sono molti colpi di scena, e la maggior parte delle storie non fa che procedere delicatamente intorno alla propria premessa. E immaginandolo così, potrebbe sembrare solamente un noioso mattone, un centinaio di pagine buone solo per alimentare il caminetto nelle fredde sere d’inverno. Nulla di più sbagliato. Se è vero che liberarsi dalla struttura più classica di narrazione può essere un grosso rischio, è anche vero che, senza un qualcosa in più, una storia costruita seguendo simili regole finisce solo per essere un freddo e inespressivo ammasso di tecnica. E Nabi quel qualcosa in più ce l’ha, e riesce a sorreggersi sopra di esso molto più efficacemente di quanto gli permetterebbe una struttura costituita da rigidi dettami. E come si può immaginare, quel qualcosa in più è proprio l’atmosfera.

I personaggi diventano protagonisti in senso assoluto. Ciò che ha veramente importanza, in quest’opera, sono i loro sentimenti, il modo in cui vivono le situazioni in cui si trovano, i loro pensieri, i loro ricordi, il modo in cui questi si rincorrono per ricongiungersi da un racconto all’altro. E soprattutto, la sottile, dolce, delicata malinconia che si respira pagina dopo pagina. Una poetica quasi eterea, carica di una sfumatura di innocenza, di irrealtà, che tuttavia non per questo precipita in ostentazioni di buonismo. Un’introspezione semplice ed efficace, poche pennellate decise che dipingono i personaggi nella loro completezza, dando loro un “colore” e una luminosità palpabile, che riesce a trasparire sino al di fuori di loro, in ogni cosa che li circonda. E nonostante alla base del volume vi sia proprio tutto ciò che passa per la loro mente e per il loro cuore, non ci troviamo davanti per questo all’ennesimo rimuginare piagnucoloso, o a qualche facile depressione fondata su banalissime frasi a effetto. La malinconia è velata, se non di un sorriso, almeno di un senso di pace, tranquillità, o nel peggiore dei casi rassegnazione. E più che dai dialoghi, i sentimenti traspaiono da gesti semplici, da sguardi intensi, con una naturalezza e un’intensità straordinaria. Lo stesso mondo fantastico in cui il volume è ambientato non viene rappresentato con gelido descrittivismo topografico, ma ci viene concesso di viverlo ammirando i paesaggi incontaminati, gli affollati villaggi, i limpidi cieli tagliati dalla scia di una affusolata aeronave. Come se potessimo guardarlo con i nostri occhi, senza conoscerlo, ma non per questo incapaci di ammirare la sua affascinante delicatezza.

Il tratto stesso di disegno riesce a esprimere perfettamente tutte queste sensazioni. Carico di una sua spigolosa dolcezza e di una precisione per nulla scarna ma non per questo meno essenziale, pur non potendosi definire stilisticamente perfetto è talmente adatto ai toni del volume da riuscire ad accompagnare in modo eccellente la narrazione. I paesaggi naturali sono rappresentati con molta cura, e anche se si può notare talvolta un uso forse eccessivo dei retini, ciò che è frutto della matita dell’autrice non è per questo meno carico di intensità. Ma ciò che più colpisce sono i volti dei personaggi. Molto spesso i sentimenti sono espressi proprio attraverso la luminosità dei loro sguardi, con estrema abilità, ma al di là di questo, ciò che più spicca è una sorta di… inespressività estremamente espressiva. Tecnicamente i volti dovrebbero talvolta apparire goffi e spenti, a causa di uno stile ancora acerbo, ma anche questo riesce a contribuire efficacemente all’atmosfera, tanto da riuscire comunque a rispecchiare le stesse emozioni che teoricamente gli sarebbero state negate.

Detto questo, la domanda è semplice. È un manga da consigliare? Purtroppo la questione è abbastanza spinosa. L’atmosfera è il punto di forza di Nabi, certo, ma al contempo ne è la più grande debolezza. Se non gradite storie e ambientazioni su questo tono, infatti, tutta la meraviglia di Nabi crolla con un soffio di vento, e finireste per metterlo sotto alla gamba di un tavolo traballante pur di dare un’utilità ai 7 euro che avete ingenuamente speso. Perché sì, costa 7 euro, e non è poco. E per quanto l’edizione sia di qualità abbastanza buona e molto elegante da vedere, non credo che tutti sarebbero disposti a spendere una simile somma per un unico volume, così, sulla fiducia.
Se tuttavia adorate le storie fantastiche cariche di malinconia e di sentimenti delicati, probabilmente considererete Nabi un piccolo capolavoro, un gioiellino da tenere in bella vista, e vi ritroverete a sfogliarlo giorno dopo giorno. E se appartenete a questa categoria, siate felici: Kim-Yeon-Joo ha intenzione di trasformare Nabi in una serie regolare, e forse presto potrete avere tra le mani molti altri volumetti carichi della poesia che ha accompagnato i racconti di Myoun e Ryusang. Su Soryu, Kyom e Pyol nulla di certo, però. Forse, già da adesso, dovremo prepararci a dir loro addio…

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